Noi siamo le stelle, e cantiamo
cantiamo con la nostra luce
siamo uccelli fatti di fuoco
e spieghiamo le nostre ali sopra il cielo.
La nostra luce è voce
tracciamo la strada per l’anima
nel suo viaggio attraverso la morte
e nessun bastione ci potrà fermare.
Questo è il canto delle stelle.

Poema Passamaquoddy

E viene il giorno in cui le parole tacciono come foglie secche  trasportate senza riguardo da un vento freddo che viene da nord. Ma non tace il cuore, in subbuglio, e non tace la mente, quel coro che parla, giudica e divide il mondo a metà sempre più piccole, possono tacere allora le mie mani?

Il mondo corre, si ferma per qualche lacrima, per un funerale di stato e poi prosegue senza pagare il conto. Il dovere di chi scrive, di chi canta, di chi disegna, di chi educa, di chi semina bellezza è quello di creare invece delle soste, delle oasi di raccoglimento. Nel viaggio di ogni giorno è importante cercare non tanto risposte – quelle non arrivano veloci e risolutive come si vorrebbe, richiedono la pausa per sentirsi, per comprendere, che la verra guerra è dentro il cuore di ognuno –  ma momenti in cui espandere le proprie percezioni rinchiuse nei muri fisici e mentali che ci costruiamo attorno.

Spengo la tv e le notifiche, le opinioni di chi crede di sapere, di chi vuol dare colore al sangue, di chi lo vende tanto al kilo, inserisco un cd nello stereo e inizio a viaggiare.

Un freddo sabato di gennaio ho incontrato in un parcheggio un musicista ed un pittore che mi ha regalato un suo album “Noi siamo le stelle“. Inizia con un poema di una tribù indiana, ancora oggi esistente, che viveva in una vasta area nella costa orientale del Canada e degli Stati Uniti. Una poesia che parla di un viaggio, di cui noi uomini bianchi sappiamo così poco.

noi siamo le stelle, Giuseppe Dal Bianco, Luca Vivan, travel music

Meditazione sonora. Giuseppe Dal Bianco

Il resto continua nelle evocazioni che si espandono nella stanza come profumi di terre lontane, suoni di strumenti a fiato che Giuseppe Dal Bianco raccoglie da ogni angolo del mondo, non per farne oggetti da collezione, ma per renderli organi viventi che portano altrove, in una meditazione sonora che ti fa sentire finalmente a casa.

Io non sono un critico e riconosco il limite delle parole nel descrivere la più sottile delle arti. Lascio cadere il mio ruolo e sto in ascolto, portato di qua e di là, verso confini incerti, oltre l’Europa, verso la prima Asia. Questo musicista di Vicenza ha infatti un forte legame con l’Armenia, con un suo flauto tradizionale fatto di legno di albicocco, il duduk, e con un prete, padre Komitas, considerato il padre della musica moderna del suo popolo, sconfitto e disperso come quegli indigeni americani, autori della poesia che ho citato. La musica e la poesia sono spesso la voce di chi non ha potuto cantarla liberamente o di chi l’ha usata per lenire il dolore della fuga e della diaspora.

Il viaggio della musica non si ferma però davanti alla follia degli uomini, come il vento, scivola tra le porte socchiuse, entra dalle finestra lasciate aperte, oltrepassa le barriere artificiali chiamate confini e soffia, soffia oltre la paura che divide e comanda, fino ad entrare nel cuore di chi ascolta. La musica di Giuseppe Dal Bianco, di questo suo ultimo cd, è un lungo canto, da Occidente ad Oriente, che culla nei suoni dei fiati e dei delicati riverberi elettronici. E per un attimo, anche noi siamo le stelle, e nessun bastione, nessun muro di pensieri o di mattoni può fermare la nostra voglia di bellezza, di pace e di armonia.