C’è una strada discreta, come quasi tutto qui in Friuli appena ti allontani dalle città e dal mare, che inizia a salire ed entra in un regno nascosto, fatto di rocce bianche e acque color smeraldo, di boschi e di piccoli borghi. In apparenza sembra poco, se cerchi cartoline da postare qua e lì, se cerchi scenari di altre valli e regioni, ma come sempre, la bellezza richiede attenzione e cura. La Valcellina è una valle che puoi percorrere una domenica di svago ma che ha bisogno di tempo per svelare tutte le sue storie, infinite come le pieghe delle sue rocce, come le sue acque che scendono scavando un canyon raro. Nel frattempo, prenditi una pausa e cerca anche i suoi sapori, un antico salume che affonda le sue radici nel mondo dei boschi e dei pastori, la pitina.

La vecchia strada della Valcellina

Esistono luoghi che sono della memoria, spazi dai colori ambigui fatti come di fotografie sparse, di immagini ritagliate che emergono improvvise, magari inspiegabilmente, secondo le sinuose vie della mente, o che si affacciano timide quando richiamate dal profondo degli anni.

La vecchia statale 251 della Valcellina, che univa la pianura e la montagna, è uno di questi anfratti dell’animo, almeno per noi abitanti della provincia di Pordenone, una traiettoria che associo a vecchi maglioni, a una Simca, auto di cui forse nessuno serba ricordo, al mio sguardo fuori dal finestrino a veder scorrere le pareti di roccia e giù in fondo, una striscia di un colore bizzarro, quasi verde, del torrente Cellina, che ancora oggi mi strappa un sorriso.

 Valcellina, forra del Cellina, vecchia strada della Valcellina

Anni fa scrivevo queste parole per un blog di viaggio che ospitava le mie prime parole nel web, un racconto di natura e di musica. Molte cose sono cambiate da allora, forse una conoscenza più profonda di questi luoghi, sicuramente una loro maggior apertura al turismo.

L’abbandono diventa allora la possibilità di una gita, camminando tra le vecchie gallerie, scorgendo l’acqua luminosa che scivola tra massi e legni caduti, rivelando uno dei canyon più spettacolari d’Europa, una forra che va cercata come faccio io, oltre la strada nuova che costeggia il lago di Barcis, con un casco in testa e l’imbrago, verso un’altra visuale.

Nel cuore roccioso e segreto della Valcellina, dopo aver attraversato il buio delle gallerie, dopo aver sentito l’acqua scorrere in basse e cadere lentamente dai soffitti scavati un’epoca fa, appare un ponte sospeso, una possibilità di vivere questo mondo passandoci sopra, lentamente, passo dopo passo.

 ponte tibetano di Barcis, forra del Cellina

Il ponte tibetano di Barcis è un’opportunità che ti consiglio di concederti, un’esperienza in totale sicurezza, che permette di guardare bene dall’alto queste acque chiare e nascoste, di ammirare la forra che hanno scavato secolo dopo secolo, stagione dopo stagione, di sentire il vento che soffia tra i faggi e gli abeti, portando profumi di resine e natura selvaggia.

Morte e Vita nella Valcellina

Ritorno indietro, galleria dopo galleria, un’ultima occhiata alla forra del Cellina, alle nebbie del mattino che il sole alto nel cielo ha messo ormai in fuga. Una splendida giornata di sole, come sole la fine estate e l’inizio autunno – il periodo migliore per venire qui, evitando il picco di agosto – sanno regalare. La strada prosegue costeggiando il lago e poi di nuovo il torrente, sempre più dentro questo mondo selvaggio. La prossima destinazione è un’altra storia del Parco delle Dolomiti Friulane, una storia dura, come tutte quelle che sanno di morte e di vita.

Erto e Casso, vista dalla diga del Vajont

Il cielo blu sopra i monti, una vista di pace dalla diga del Vajont

Per molti abitanti di questa periferia d’Italia il nome “Vajont” riecheggia nella memoria come una tragedia senza fine.
Un evento accaduto tanti anni fa è ancora scritto nelle parole dei vecchi abitanti di quelle terre ma sopratutto nelle rocce delle montagne che hanno ospitato una follia umana di cui si sono presto liberate, come fanno di solito: prima avvertono, parlano tramite antiche leggende, poi iniziano a infastidirsi e sussultare, finché non precipitano e distruggono.

Per noi, la diga del Vajont non è un luogo facile, perché gli echi di morte e di ingiustizia risuonano ancora. Preferiamo camminare sui sentieri di altre valli, come la vicina Val Cimoliana, in cerca di una meritata bellezza che possa fugare le nuvole (reali ma soprattutto metaforiche) che troppo spesso sovrastano le nostre quotidianità.

Il Friuli ora è ricco, non è una “povera regione di qualche sud” ma non è sempre stato così. Qui si emigrava, si doveva partire, a volte mancava il sale e ci si ammalava di pellagra. Qui si beveva e si beve molto, a volte troppo, per placare demoni che non trovano sfogo nelle danze o nell’amore, sentimento nascosto e poco celebrato.

La bellezza salverà il mondo e la natura lo sa bene, è il suo lavoro da sempre. Affianco alla diga, monumento alla “banalità del male”, all’ingiustizia, voluta non da pazzi criminali, ma da padri di famiglia e ragionieri, sorge il “Bosco Vecchio”, la foresta che cresceva molto più in alto, ma che il 9 ottobre 1963 franò insieme a milioni di metri cubi di terra.

 diga del Vajont, bosco vecchio
I larici e gli abeti hanno deciso che potevano risorgere, così i rami sono diventati fusti e radici, hanno fatto quello che fanno tutte le forme di vita: cercare la luce del sole per crescere e donare nuova vita, in un ciclo che non si spezza mai, che nemmeno i meccanismi di un’economia e di una società impazzita possono bloccare.
Se proprio vuoi vistare la diga del Vajont vai oltre il “turismo macabro”, cerca la pace di questo bosco vecchio che si è fatto nuovo.

Saperi e sapori, la pitina

Dopo il Vajont verrebbe da non dire più nulla, da rinchiudere le parole in un sacro silenzio, quello si offre come tributo ai morti. Eppure, la vita continua e chiede anch’essa il suo tributo, il suo bisogno di prosperare, di espandersi, di non restare sempre uguale, statica come una tomba.

Da queste valli, dai pendii e dai boschi emerge un’altra storia antica, forse meno delle rocce ma quanto gli esseri umani che hanno popolato queste terre aspre, seguendo tracce di animali selvatici e addomesticati. Nomadi pastori, persone che vivevano nel sacro silenzio della vita, in pascoli d’alta quota, al limitare delle foreste, dominio di spiriti e dei loro miti.

 tagliere di pitina, presidio Slow Food del Friuli, prodotto enogastronomico della Valcellina

In questo confine incerto, non addomesticato dall’agricoltura e dai dogmi della pianura, nasce un salume raro, riscoperto negli ultimi anni. La pitina è un impasto di carne dei pascoli, più raramente della caccia, insaporito in modo diverso a seconda delle ricette, o delle vallate, velato del grano di queste terre del nord, il mais, e lasciato alla protezione che sa donare la voce del fumo, come un incantesimo pronunciato dagli alberi di queste foreste, faggi soprattutto.

Cibo di contrabbando e segreto, ora lo puoi trovare in quasi tutti i ristoranti lungo la strada che affiancano il Cellina e le altri valli del Friuli occidentale.


Consigli utili per visitare la Valcellina

La vecchia strada, il vecchio bosco e un piatto fatto con la pitina li puoi trovare viaggiando da solo o in compagnia, non sono certo segreti. Ma se non conosci la Valcellina il mio consiglio è di affidarti ad una guida del Parco delle Dolomiti Friulane, qualcuno che possa svelarti le storie che si nascondono tra le rocce e le acque. Io amo andare in giro da solo ma ogni tanto mi piace anche ascoltare, per poter leggere il paesaggio in modo più intenso.

Un’altra opzione è iscriverti alle passeggiate che organizza l’Ecomuseo Lis Aganis, escursioni semplici alla portata di tutti, che permettono di conoscere questa valle e le altre valli, entrando nelle sue leggende, nei suoi saperi artigiani e anche nei suoi sapori, come la pitina.