C’era e non c’era una volta un regno lontano, oltre le grandi montagne, che alcuni dicevano essere tra le più dolci del mondo, oltre un mare che da sempre i buoni naviganti avevano solcato per portare conoscenze, profumi e sapori.

In quel tempo lontano accadde quello che nessuno si aspettava. Come quando il padrone di casa arriva in piena notte dalle nozze e solo pochi servi sono svegli e odono il suo bussare. In pochi giorni arrivò un fortissimo vento dall’Oriente, una tempesta che costrinse a chiudere i porti, e le porte di case, officine e templi. 

Il vento era forte, nessuno si ricordava una tale violenza. Nella notte i balconi delle abitazioni sbattevano così forte da sembrare tamburi, di un oscuro e antico rito. E di giorno, tutto restava chiuso, nessun pellegrino sulle strade, nessun carro nelle vie delle città, nessun sorriso nei volti delle persone rinchiuse dietro le loro finestre.

In quel regno lontano non vivevano solo gli adulti spaventati, i bambini tristi perché non potevano giocare con i loro amici o gli anziani che temevano ancora di più di morire. In quel regno vivevano le creature invisibili agli occhi degli umani. E tra queste creature antiche c’erano le fate, esseri leggiadri e alati, che volano libere tra i campi e i giardini, che ridono e scherzano con voci d’argento, che dormono nelle corolle dei fiori sognando cose che poi trovano alle radici dei loro giacigli quando si svegliano.

Il vento dell’Oriente era così forte che un giorno, mentre infuriava più potente del solito, una di queste fate, si svegliò cadendo dal suo fiore e fu presa dal panico. Le sue ali, dov’erano le sue ali? Si toccò il dorso più volte. A piedi si avvicinò ad una pozza vicina, una goccia d’acqua per noi umani, e vi si specchiò. L’immagine riflessa rimandava un volto bellissimo ma infinitamente triste. La sua schiena era vuota. Le ali erano scomparse.

La fata si mise a piangere. Pochi umani hanno udito il pianto di una fata e quei pochi giurano di aver provato una tristezza così forte da aprire il loro cuore e far uscire tutte le lacrime che mai avevano pianto in vita loro. La fiata pianse e pianse, le sue lacrime d’argento formarono una pozza ai suoi piedi delicati. Tra un singhiozzo e l’altro, quando la fata aprì gli occhi per un attimo, interruppe il pianto.

Dietro di lei c’era una di quelle buffe creature che cambiano nome in ogni paese del mondo, esseri a volte dispettosi ma profondi amanti della natura, birichini ma saggi. In quel regno lontano veniva chiamato sbilf, in altri, folletto.

“Perché piangi bellissima fata?” Lo sbilf non mancava mai di fare la corte alle fate o alle agane, le creature dell’acqua. Di solito questo lo consideravano un po’ bruttino e sbruffoncello ma era innegabile che fosse un essere buffo e divertente.

“Non vedi Sbilf. Le mie ali sono scomparse!”

“Ali scomparse? Certo è che quest’anno in questo regno sta succedendo di tutto.” Lo sbilf parlava sorridendo, come se tutta quella situazione, fosse uno spasso per lui.

“Si, ali scomparse Sbilf! Non vedo cosa ci sia di divertente in questo!” Far arrabbiare una fata può essere pericoloso. Lo sanno gli incauti umani quando distruggono i loro prati fioriti, attirandosi piccole e grandi maledizioni, che loro però non sanno capire e scambiano per malattie del corpo. tentando di curarle senza successo con amari medicinali.

“La rabbia ti rende più bella…” La fata gli gettò un’occhiata infuocata e allora lo sbilf cominciò a farsi meno sbruffone.

“Volevo dire, o dolce fata di questo prato, che sono qui per aiutarti. Conosco qualcuno che ci potrebbe dare una mano.”

La fata si lasciò prendere la mano dallo sbilf, troppo triste per opporsi al suo gesto amichevole. I due si incamminarono fuori dal prato, per le vie di una piccola città del regno. La fata faceva fatica a stare dietro allo sbilf perché non era nella sua natura camminare.

Attorno a loro pochi umani, con i volti coperti e le menti chiuse in cupi pensieri, e poi col vento, vortici di foglie e carte su cui erano scritti gli editti del re e dei suoi consiglieri. I pochi che incrociavano, ancora più incapaci di vederli, sembravano agli occhi e alle orecchie delle due creature, ancora più matti.

“Hai sentito? I porti non apriranno più e ci faranno morire di fame!”

“Un vicino mi ha detto che un suo amico gli ha riferito che le guardie del re stanno incarcerando tutti quelli che escono di casa.”

“E l’oro? Dei predoni sono scesi da Nord e stanno rubando tutto l’oro del regno, perché non ci sono più guardie a proteggerlo, perché tutte le guardie sono in giro ad arrestare le persone fuori casa!”

Lo sbilf non sapeva se ridere o piangere. Era un tipo burlone, uno di quelli che quando c’era un incendio nel bosco dove viveva o quando un gruppo di umani si perdeva nei sentieri delle montagne, prima di dare una mano, ne doveva combinare una delle sue. Ridere per lui era come per le fate danzare tra i prati. Una necessità del suo antico spirito.

Ma questi umani, in quell’anno, stavano andando fuori di senno, molto più del solito! E sospettava che le ali scomparse della fata, il vento d’Oriente e le altre stranezze di quel periodo fossero in qualche modo collegate a quella follia generale.

In silenzio camminavano, con i loro piccoli passi, tra le folate di vento che sembravano danzare, aumentando di forza, per poi acquietarsi, fare una giravolta e poi scatenarsi di nuovo, furiose. La piccola città taceva, il fumo di un comignolo lanciava i suoi muti messaggi al cielo, i panni stesi tra una via s’agitavano come se fossero indossati da una banda di posseduti, delle porte s’aprivano e un’ombra sbirciava fuori a controllare il nulla.

Per fortuna, in quella desolazione, incrociarono una mamma paperella che era a spasso con i suoi piccoli. La salutarono e lei rispose contenta, mentre i pulcini agitavano le ali ancora timide e acerbe. Gli animali sembravano contenti, perché avevano tutte le strade per sé ma anche loro, poveri, sentivano la follia che si era impadronita degli umani. Le persone non si accorgono nemmeno degli animali, non li riescono a vedere davvero, si disse lo sbilf e sconsolato lanciò col piede un sasso che ruzzolò nella vecchia strada senza incontrare alcun ostacolo.

“Dove mi stai portando Sbilf? Proprio non mi piace camminare per le strade della città. Il mio mondo è nei prati, al massimo nei bei giardini curati di qualche casa, ma per le strade, così dure e fredde, senza un fiore e poi così tristi.”

“Porta pazienza fata. I fiori ci sono anche qui, bisogna saperli vedere.” E come fosse un trucco di un mago provetto, lo sbilf fece una piroetta e si arrampicò veloce sul ramo intrecciato di un glicine appena sbocciato. Ne annusò il profumo, accarezzò un petalo, mise le mani a coppa e con una capriola si lanciò per terra.

Atterrò davanti alla fata che lo guardava stupita, si avvicinò con le mani al suo naso e le fece annusare l’inebriante tesoro della primavera.

“Ti ringrazio Sbilf. Mi sento così triste, senza ali e in mezzo a tutto questa grande confusione.”

“Anch’io fata, anch’io. Sono uno spirito burlone, ma di questi tempi mi passa la voglia di ridere. Certe mattine mi sveglio e non ho voglia di fare nulla. Non so a chi fare scherzi! Nessuno va più nei boschi, tutti chiusi in casa. Ma poi, mi basta guardare un fiore che con amore invita le api a coglierne il nettare o un albero che sta urlando la sua rinascita e mi scuoto da tutto questo.”

Lo sbilf le sorrise, un po’ sornione, come un dongiovanni consumato. Forse la fata non se ne accorse, ma lo ringraziò chinando la sua testa e muovendo la sua bella chioma bionda.

“Ecco, siamo arrivati!” Lo sbilf indicò un vecchio portone, di una vecchia casa, così vecchia da sembrare disabitata. Le finestre però erano aperte e drappi colorati, invece di coprirle, sembravano invitare a guardare dentro, a non farsi intimorire.

Lo sbilf bussò sette volte. Un lungo silenzio rispose ai suoi colpi, poi una voce fece capolino da dietro la porta.

“Chi va là?”

“Sono colui che ride di ogni cosa, della morte e della vita, ma soprattutto ride di un mago a cui ho rubato il latte sotto i suoi occhi.”

Il portone si aprì cigolando, un viso coperto ne uscì e guardò subito in basso (…).


Il racconto continuerà? Io credo di si. Fammi sapere se ciò che hai letto ti è piaciuto e se vuoi leggerne ancora.

Grazie infinite ad Anna Antonutti per la sua delicata illustrazione, anche questo suo dono meriterebbe un racconto.